Qual'è la differenza tra l'intelligente e il furbo? L'intelligente sa che il furbo vive di "ignoranza conviviale" ed ingenuità, il furbo invece non sa che l'intelligente sa...
22 agosto 2011
21 agosto 2011
20 agosto 2011
18 agosto 2011
17 agosto 2011
L'Ecloga: The passion of the dying...
Gli uomini sanno le cose presenti. Gli dei conoscono quelle future, assoluti padroni di ogni luce. Ma, del futuro, avvertono i sapienti ciò che s'appressa. Tra le gravi cure degli studi, l'udito ecco si turba d'un tratto. A loro giungono le oscure voci dei fatti che il domani adduce. Le ascoltano devoti. Fuori per via, la turba non sente nulla, con le orecchie dure. (C. Kavafis, I sapienti ciò che s'avvicina)
14 agosto 2011
La vita del piacere e la morte del dovere...
Di tempo ne è passato, volare nel ciel della vita mi è stato negato, mi credon morto ma io sono soltanto un aborto, son solo uno dei tanti che gli occhi non hanno mai aperto, sono quì ad aspettarne un esercito, siamo solo un ricordo del passato per chi non ci ha mai amato, son quì alla ricerca di qualcuno come te, che veda noi come un inno alla vita, la mia mamma non sapeva che si può morire ma non uccidere, molte mamme non sanno che chi uccide, purtroppo, è già "morto"... http://sorvegliato.wordpress.com/2010/01/22/bonino-e-il-metodo-della-pompa-delle-biciclette/
12 agosto 2011
11 agosto 2011
02 agosto 2011
30 luglio 2011
27 luglio 2011
Saggezza irrazionale...
Questo messaggio lo dedico ai folli.
A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Potete citarli...
Essere in disaccordo con loro...
Potete glorificarli o denigrarli, ma l'unica cosa che non potete fare è ignorarli!
Perchè riescono a cambiare le cose.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio.
Perchè solo coloro che sono abbastastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero. (Gandhi)
A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Potete citarli...
Essere in disaccordo con loro...
Potete glorificarli o denigrarli, ma l'unica cosa che non potete fare è ignorarli!
Perchè riescono a cambiare le cose.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio.
Perchè solo coloro che sono abbastastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero. (Gandhi)
25 luglio 2011
14 luglio 2011
30 giugno 2011
L'invidia sovrasta le persone sciocche...
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent'è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba. Divina Commedia - Inferno, Canto XV, Versi 67 - 72
L' etimologia della parola è il verbo invideo, cioè guardo dentro in una persona e provo dispiacere per il suo bene, il suo successo, le sue qualità morali o spirituali. E' un vizio vergognoso perchè è tristezza del bene altrui, considerato come dimunutivo del proprio valore personale: ecco perchè l' invidia non si manifesta esteriormente se non con la calunnia, la diffamazione e l' assassinio (da anima.inquieta).
28 giugno 2011
25 giugno 2011
16 giugno 2011
12 giugno 2011
Gesta indelebili...
C'era una volta un ragazzo con un brutto carattere.
Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno nello steccato del giardino ogni volta che avesse perso la pazienza e litigato con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò 37 chiodi nello steccato. Nelle settimane seguenti, imparò a controllarsi e il numero di chiodi piantati nello steccato diminuì giorno per giorno: aveva scoperto che era più facile controllarsi che piantare i chiodi. Finalmente arrivò un giorno in cui il ragazzo non piantò alcun chiodo nello steccato. Allora andò dal padre e gli affermò che per quel giorno non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse di levare un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non aveva perso la pazienza e litigato con qualcuno. I giorni passarono e finalmente il ragazzo poté dire al padre che aveva levato tutti i chiodi dallo steccato. Il padre portò il ragazzo davanti allo steccato e gli disse: "Figlio mio, ti sei comportato bene ma guarda quanti buchi ci sono nello steccato. Lo steccato non sarà più come prima. Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di brutto, gli lasci una ferita come queste. Puoi piantare un coltello in un uomo, e poi levarlo, ma rimarrà sempre una ferita. Non importa quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà." (Da internet)
Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno nello steccato del giardino ogni volta che avesse perso la pazienza e litigato con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò 37 chiodi nello steccato. Nelle settimane seguenti, imparò a controllarsi e il numero di chiodi piantati nello steccato diminuì giorno per giorno: aveva scoperto che era più facile controllarsi che piantare i chiodi. Finalmente arrivò un giorno in cui il ragazzo non piantò alcun chiodo nello steccato. Allora andò dal padre e gli affermò che per quel giorno non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse di levare un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non aveva perso la pazienza e litigato con qualcuno. I giorni passarono e finalmente il ragazzo poté dire al padre che aveva levato tutti i chiodi dallo steccato. Il padre portò il ragazzo davanti allo steccato e gli disse: "Figlio mio, ti sei comportato bene ma guarda quanti buchi ci sono nello steccato. Lo steccato non sarà più come prima. Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di brutto, gli lasci una ferita come queste. Puoi piantare un coltello in un uomo, e poi levarlo, ma rimarrà sempre una ferita. Non importa quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà." (Da internet)
06 giugno 2011
Il Festival delle frontiere (Tenda Berbera)
Il convegno tenuto dalla nota femminista islamica Malika Hamidi che prosegue senza tentennamenti la sua lunga battaglia a favore dei diritti delle donne.
http://frontierenews.it/2011/06/frontiere-news-al-festival-delle-culture-di-ravenna/
http://frontierenews.it/2011/06/frontiere-news-al-festival-delle-culture-di-ravenna/
02 giugno 2011
Profonda Mente: uno ha tradito, ricordi?
Erano undici o dodici gli apostoli ai quali è apparso il Risorto?
Nel versetto 5 cp. 15 di I Corinti si parla di «Gesù... apparso a Cefa e quindi ai Dodici». Vorrei una spiegazione teologica: perché si parla di dodici Apostoli e non di undici come erano in realtà? Giuda Iscariota non c’era più e ancora non era stato eletto Mattia a sostituirlo. In altri documenti, vedi Atti 1,13 ci sono anche i nomi degli undici (non dodici) Apostoli. In Lc 24,9 ugualmente si citano gli undici e così via.
Elena
Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà Teologica e docente di Teologia biblica
«Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me…» (1 Cor 15,3-8).
Il testo cui la domanda si riferisce, tratto dalla prima lettera di Paolo alla comunità di Corinto, contiene una delle più antiche confessioni di fede sulla risurrezione di Gesù, come troviamo anche in Rom 1,3-4: «il Vangelo … riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore».
Entrambi i testi riferiscono uno stadio della tradizione precedente all’apostolo, come lui stesso dichiara espressamente: «Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15,3), e riguardo all’Eucaristia: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane...» (1 Cor 11,23). I verbi che qui sono usati («trasmettere» - «ricevere») richiamano quelli usati nella tradizione rabbinica, quando un maestro consegnava oralmente al suo discepolo ciò che egli sapeva per via di un’analoga trasmissione.
Quanto all’insegnamento sulla risurrezione, ci si è interrogati se originariamente non fosse addirittura formulato nella lingua aramaica, o direttamente in quella greca, così come Paolo lo accoglie nel suo scritto, facendolo proprio. L’ipotesi migliore sembra la seconda, e ci riporta alla chiesa di Antiochia, in cui Paolo è presente dagli inizi degli anni 40 dell’era cristiana. La formula, tuttavia, è certamente più antica: si può dire che risale fino al decennio precedente, praticamente all’indomani della stessa risurrezione di Gesù.
La frase è costituita da quattro verbi: «morì», «fu sepolto», «è risuscitato il terzo giorno», «apparve», ma solo il primo e il terzo sono fondamentali nell’annuncio. Gli altri due verbi sono le conseguenze del centro dell’avvenimento: «Colui che è morto è stato risuscitato». E soprattutto, la sua morte è avvenuta «per i nostri peccati», come compimento delle Scritture (affermato due volte!).
Quanto alle manifestazioni del Risorto, ossia i momenti in cui i discepoli percepiscono l’avvenuta novità di vita, operata su Gesù, esse sono consegnate alla nostra fede. La lettrice giustamente avverte la difficoltà di interpretare il fatto che, mentre in 1 Corinzi si parla di «Dodici», di fatto dopo la risurrezione i discepoli sono soltanto undici, come affermano il vangelo di Luca e il libro degli Atti. Così leggiamo che le donne ritornate dal sepolcro «annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri» (Lc 24,9), e i due discepoli di Emmaus «partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro» (Lc 24,33). Così Mattia «fu associato agli undici apostoli» (At 1,26), i cui nomi sappiamo dalla lista di At 1,13.
Per la verità, questo particolare non sembra importante nelle manifestazioni di Gesù raccontate nel vangelo di Giovanni (Gv 20,18.19.26). Si parla solo di alcuni «discepoli» nell’episodio del mare di Galilea (cf. Gv 21,1-2.14). C’è però un dettaglio, che potrebbe far luce sull’intera questione: quando parla di Tommaso, il Vangelo di Giovanni dice: «uno dei Dodici, chiamato Dìdimo» (Gv 20,24; cf. 20,26; 21,2), senza preoccuparsi della sorte di Giuda dopo la passione.
Si può allora affermare che, anche nella lettera ai Corinzi, il numero Dodici, abbia un contenuto che va oltre il significato indicato dalla semplice cifra. Per essere precisi, in alcune tradizioni testuali della lettera di Paolo (dal V secolo in poi), i copisti tentarono di armonizzare l’apparente incoerenza, sostituendo «dodici» con «undici», ma senza reale necessità. Infatti, il numero Dodici indica qualcosa che richiama la scelta di Gesù, dal «valore ideale e quasi sacrale, intoccabile» (R. Penna): per cui prima si parla di Pietro da solo («apparve a Cefa») e quindi dei «Dodici». http://www.novena.it/il_teologo_risponde/teologo_risponde_33.htm
Nel versetto 5 cp. 15 di I Corinti si parla di «Gesù... apparso a Cefa e quindi ai Dodici». Vorrei una spiegazione teologica: perché si parla di dodici Apostoli e non di undici come erano in realtà? Giuda Iscariota non c’era più e ancora non era stato eletto Mattia a sostituirlo. In altri documenti, vedi Atti 1,13 ci sono anche i nomi degli undici (non dodici) Apostoli. In Lc 24,9 ugualmente si citano gli undici e così via.
Elena
Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà Teologica e docente di Teologia biblica
«Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me…» (1 Cor 15,3-8).
Il testo cui la domanda si riferisce, tratto dalla prima lettera di Paolo alla comunità di Corinto, contiene una delle più antiche confessioni di fede sulla risurrezione di Gesù, come troviamo anche in Rom 1,3-4: «il Vangelo … riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore».
Entrambi i testi riferiscono uno stadio della tradizione precedente all’apostolo, come lui stesso dichiara espressamente: «Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15,3), e riguardo all’Eucaristia: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane...» (1 Cor 11,23). I verbi che qui sono usati («trasmettere» - «ricevere») richiamano quelli usati nella tradizione rabbinica, quando un maestro consegnava oralmente al suo discepolo ciò che egli sapeva per via di un’analoga trasmissione.
Quanto all’insegnamento sulla risurrezione, ci si è interrogati se originariamente non fosse addirittura formulato nella lingua aramaica, o direttamente in quella greca, così come Paolo lo accoglie nel suo scritto, facendolo proprio. L’ipotesi migliore sembra la seconda, e ci riporta alla chiesa di Antiochia, in cui Paolo è presente dagli inizi degli anni 40 dell’era cristiana. La formula, tuttavia, è certamente più antica: si può dire che risale fino al decennio precedente, praticamente all’indomani della stessa risurrezione di Gesù.
La frase è costituita da quattro verbi: «morì», «fu sepolto», «è risuscitato il terzo giorno», «apparve», ma solo il primo e il terzo sono fondamentali nell’annuncio. Gli altri due verbi sono le conseguenze del centro dell’avvenimento: «Colui che è morto è stato risuscitato». E soprattutto, la sua morte è avvenuta «per i nostri peccati», come compimento delle Scritture (affermato due volte!).
Quanto alle manifestazioni del Risorto, ossia i momenti in cui i discepoli percepiscono l’avvenuta novità di vita, operata su Gesù, esse sono consegnate alla nostra fede. La lettrice giustamente avverte la difficoltà di interpretare il fatto che, mentre in 1 Corinzi si parla di «Dodici», di fatto dopo la risurrezione i discepoli sono soltanto undici, come affermano il vangelo di Luca e il libro degli Atti. Così leggiamo che le donne ritornate dal sepolcro «annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri» (Lc 24,9), e i due discepoli di Emmaus «partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro» (Lc 24,33). Così Mattia «fu associato agli undici apostoli» (At 1,26), i cui nomi sappiamo dalla lista di At 1,13.
Per la verità, questo particolare non sembra importante nelle manifestazioni di Gesù raccontate nel vangelo di Giovanni (Gv 20,18.19.26). Si parla solo di alcuni «discepoli» nell’episodio del mare di Galilea (cf. Gv 21,1-2.14). C’è però un dettaglio, che potrebbe far luce sull’intera questione: quando parla di Tommaso, il Vangelo di Giovanni dice: «uno dei Dodici, chiamato Dìdimo» (Gv 20,24; cf. 20,26; 21,2), senza preoccuparsi della sorte di Giuda dopo la passione.
Si può allora affermare che, anche nella lettera ai Corinzi, il numero Dodici, abbia un contenuto che va oltre il significato indicato dalla semplice cifra. Per essere precisi, in alcune tradizioni testuali della lettera di Paolo (dal V secolo in poi), i copisti tentarono di armonizzare l’apparente incoerenza, sostituendo «dodici» con «undici», ma senza reale necessità. Infatti, il numero Dodici indica qualcosa che richiama la scelta di Gesù, dal «valore ideale e quasi sacrale, intoccabile» (R. Penna): per cui prima si parla di Pietro da solo («apparve a Cefa») e quindi dei «Dodici». http://www.novena.it/il_teologo_risponde/teologo_risponde_33.htm
30 maggio 2011
L'alto Monte..
17 maggio 2011
15 maggio 2011
08 maggio 2011
01 maggio 2011
26 aprile 2011
25 aprile 2011
24 aprile 2011
10 aprile 2011
06 aprile 2011
05 aprile 2011
Estratto dall'originale telo o dall'originale corpo?
Arquata del Tronto (AP)
La copia della Sacra Sindone tra storia, verità e… “fantasia”.
La copia della Sacra Sindone tra storia, verità e… “fantasia”.
“Extractum ab originali”, è la frase impressa nella copia del drappo sacro esposto nella chiesa di San Francesco sita a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto (AP). Tutto, o quasi, è stato scritto su di essa in libri, articoli e documentazioni varie. Per questo motivo, iniziare un altro elaborato su questo tema, è cosa assai ardua. Il “coraggio”, per intraprendere questa iniziativa, è alimentato solo dalla convinzione che ogni pensiero possa essere espresso liberamente rispettando sempre e comunque quello degli altri. Detto questo, provo ad esprimerlo “nec spes nec metu”. La storia della Sindone di Arquata, come predetto, è già nota, quindi, ne riporto solo le parti salienti semplicemente per far entrare il lettore in sintonia con l’argomento. Come risulta dai documenti rinvenuti, detta copia fu fatta eseguire il primo maggio 1655 su richiesta del vescovo Giovanni Paolo Bucciarelli. In quel periodo il monsignore, era segretario del Cardinale Federico Borromeo cugino di Carlo Borromeo, conosciuto come gran “contemplatore” di Cristo crocifisso e devoto viscerale della Sacra Sindone, poi canonizzato da Papa Paolo V nel 1610 (ndr). L’anno successivo, il “pastore” di origine arquatana morì. Il piccolo comune ascolano, avendo ricevuto in dono questa reliquia, la consegnò ai frati francescani di Borgo che la custodirono con cura e devozione. L’ultima volta che fu messa a contatto con il Sudario torinese, risale al 1931 in occasione della pubblica ostensione. La sua ultima apparizione in pubblico, invece, è riconducibile al periodo della seconda guerra mondiale. Poi, non se ne seppe più nulla, fino alla ristrutturazione della chiesa dedicata a San Francesco, avvenuta a cavallo tra il 1980 e il 1981. Il telo di lino sacro fu ritrovato ben piegato all’interno di un’urna dorata nascosta dentro una nicchia di un altare. Una storia davvero avvincente che lambisce misteriosamente quella della sindone originale. Questa copia, appunto, non è una semplice raffigurazione del sudario di Torino ma, come già detto, un estratto dall’originale. Ciò dovrebbe significare che l’uomo non ha messo mano alla sua realizzazione. Ci sono tante altre riproduzioni in giro per l’Europa, ma, tutte, hanno delle caratteristiche che si differenziano sia da quella originale sia da quella esposta nel comune piceno. La verità sul telo sindonico è suffragata dalle pergamene rinvenute. Naturalmente, tutti gli atti ritrovati o presenti negli archivi storici, non possono essere messi in discussione in quanto originali, così come sono veritiere, tutte le fonti cui si è attinto per scrivere gli avvenimenti del passato. In altre parole, è come se ci si trovasse di fronte ad una verità incontrovertibile basata su atti coevi di data certa. L’unica incertezza riguarda solo il come sia stata riprodotta, anche se è difficile per i fedeli, non credere a una trasposizione miracolosa. In ogni caso, anche la stessa Sacra Sindone di Torino non ha tutte le peculiarità che ha quella di Arquata del Tronto, anzi, diversi studiosi hanno messo addirittura in discussione la sua autenticità. Naturalmente, è più facile risalire alla creazione di una copia piuttosto che a un originale risalente a più di duemila anni fa. La realtà sul sudario di Arquata, dunque, è “confermata” dalla sua storia. Ora, proprio in base ad avvenimenti realmente accaduti, vengono alla mente delle ipotesi che si basano su fantateorie che possono avere una chiave di lettura del tutto differente. La fantasia, come si sa, al contrario della realtà è creativa e basa le proprie fondamenta sui pensieri “logici” di una visuale intima e immaginaria dando “voce” al proprio estro più recondito e, il suo ruolo più difficile, è proprio quello di mettere in risalto l’invisibilità di una possibile verità, ovvero, far risaltare lo scritto su un foglio bianco senza utilizzare alcun tipo di contrasto. Su quanto anticipato e su quello che seguirà, offro la seguente chiave di lettura: “nullius in verba”. Andiamo per ordine. Molti sanno che la prima “apparizione” della Sacra Sindone è avvenuta in Francia nel 1353 nelle mani di Goffredo di Charny, discendente dell’omonimo cavaliere templare. Questa data è molto importante, infatti, si inserisce perfettamente nel periodo indicato dai risultati scientifici ottenuti nel 1988 in tre laboratori di ricerca diversi, utilizzando una tecnica definita “carbonio 14”. Secondo gli studiosi che hanno eseguito il test, il telo di lino risalirebbe ad un periodo storico che va dal 1260 al 1390. Potrebbe essere, dunque, quello che ha avvolto un uomo crocifisso ma non sarebbe lo stesso utilizzato per coprire Gesù. La risposta di queste analisi combacia perfettamente anche con i documenti ufficiali della Chiesa. Nel 1390, infatti, Papa Clemente VII su indicazione del vescovo di Troyes (luogo dove furono ufficializzati i cavalieri templari), emanò quattro bolle con le quali permise sì l’ostensione ma con l’obbligo di dire a voce alta, che il telo non era il vero sudario di nostro Signore Gesù Cristo ma un semplice dipinto fatto a sua imitazione. Davvero curioso. D’altro canto, invece, alcuni studiosi che tentano di ricostruire la storia della Sacra Sindone per il periodo antecedente al XIII secolo, sostengono che il sudario sia proprio il Mandylion o “immagine di Edessa”. Esso è rappresentato come un telo di piccole dimensioni che raffigurava solo il volto del Cristo, conservato appunto a Edessa (oggi Urfa) in Turchia dal 544 al 944 d.C., per poi essere trasferito a Costantinopoli. Sempre secondo loro, sarebbe rimasta lì fino al 1204, quando la città fu saccheggiata dai crociati che nella circostanza asportarono molte reliquie. Per rendere verosimile la loro tesi, ipotizzano che il piccolo telo di lino non era altro che la Sacra Sindone ripiegata su se stessa per otto volte e chiusa in un apposito reliquario che consentiva di vederne solo il volto. In questo modo, si oppongono fermamente alla datazione del sudario stabilita con l’innovativa tecnica del carbonio 14. Strano, ci si chiede com’è possibile sostenere così fortemente quest’ultima teoria se un pontefice ha “ammesso” ufficialmente che il lenzuolo di cui trattasi è falso? Bene, anche questa è supportata da una bolla papale del 1506 emanata da S.S. Giulio II, con la quale ribaltò il giudizio del suo predecessore e ne autorizzò il culto pubblico con regolare messa e Ufficio proprio. La situazione sembra ingarbugliarsi, difficile esprimersi sia a favore che contro. Questo chiarimento ufficiale della Santa Sede, comunque, consentì la diffusione delle copie della Sindone, tra le quali appunto quella di Arquata. Ritornando alla sindone originale, voglio raccontare un aneddoto storico molto singolare. Il 4 dicembre 1532 la reliquia rischiò di essere distrutta a causa di un incendio avvenuto nel luogo in cui si trovava: la Sainte Chapelle del castello di Chambéry. Cosa c’è di così singolare? Presto detto: dopo il rogo, il duca di Savoia, titolare della reliquia, chiese poi a papa Clemente VII di Roma, di nominare una commissione per eseguire un controllo sul lenzuolo sacro; S.S. incaricò alcuni vescovi che, dopo averla esaminata, il 15 aprile del 1534 certificarono che il telo era sicuramente quello autentico. Incredibile, cosa spinse il monarca a fare questa richiesta? Aveva forse notato qualche divergenza tra il telo precedente e quello uscito incolume dalle fiamme? Difficilmente si potrà sapere ma un fatto è certo, il Duca fece fare l’accertamento. Dopo questo avvenimento, la Sacra Sindone si spostò in varie parti d’Europa facendo ritorno a Chambéry. In seguito, i Savoia trasferirono la loro capitale a Torino ma il cimelio rimase in Francia. Come già accennato, uno dei più grandi devoti del lenzuolo funebre di Cristo, fu Carlo Borromeo. Questi, nel 1578, per sciogliere un voto fatto durante la pestilenza di Milano avvenuta nei due anni precedenti, decide di recarsi a piedi a Chambéry a far visita al telo che riportava impressa l’immagine del corpo di Cristo crocifisso. Emanuele Filiberto, sapute le sue intenzioni, per abbreviare il viaggio dell'illustre prelato, dispose lo spostamento della reliquia a Torino. Il viaggio del cardinale durò solo quattro giorni e, una volta giuntovi, si mise in preghiera davanti alla reliquia e partecipò alle quaranta ore di ostensione. Da allora, salvo qualche breve trasloco, qui è rimasta e in seguito, Umberto II di Savoia, ultimo Re d’Italia, la donò al Papa. Queste particolari situazioni storiche, m’inducono a pormi questa domanda: devo credere a quelli che dicono che la Sacra Sindone è vera oppure a chi afferma il contrario? Al di la del fatto che la risposta non dovrebbe minimamente intaccare la fede di nessuno, formulo delle mere ipotesi che possano mettersi in contrasto con il “vuoto” creato dalle ambigue informazioni ufficiali. Ai sostenitori dell’autenticità del telo sindonico e ai credenti vorrei ricordare che la persona raffigurata nel telo miracoloso di Torino, oltre alla datazione accertata da scienziati di tutto rispetto con il metodo del carbonio 14, presenta la frattura del setto nasale. Che cosa vuol dire? A mio avviso, anche se il setto nasale non può essere considerato un vero osso, ciò non corrisponderebbe con quanto scritto dal profeta Isaia: “nessun osso gli sarà spezzato” e quindi anche con le parole di Dio (vedi il Volto, nisi crediteritis non intelligetis). La Sindone di Arquata, come già detto in preambolo, è un “Extractum ab originali”, cioè, un’immagine creatasi con la sola trasposizione. Oltre alle tante differenze oggettive tra i due teli (tra le quali il naso, le spalle cadenti, capelli e sangue), osservandola attentamente viene da chiedersi: perché non si fa uno studio approfondito sull’autenticità della stessa che possa diramare i dubbi dei credenti e dire con certezza che l’uomo non è l’artefice di tale immagine? Sarebbe interessante svelare l’arcano della Sindone originale con l’aiuto di una “copia”. Si teme forse di fornire prova certa? Non so, ma penso che gli “interessati” non debbano sapere o avere alcuna contezza fino a quando non arriverà il “momento” opportuno. “Onus probandi fidelibus”! (Massimo Maravalli)
02 aprile 2011
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